“Dopo aver analizzato fatti e testimonianze questa corte dichiara Martin Stevenson un fallito!”. Il rumore del martello del giudice cadde fragorosamente sul tavolo.
Martin si svegliò di colpo pensando che fosse scoppiato un temporale. Guardò fuori. Splendeva il sole. Era una bellissima giornata di dicembre.
Si era addormentato sulla sua scrivania di mogano, piena zeppa di libri e vinili, un foglio stropicciato fra le mani. Rilesse quella implacabile sentenza. Un fallito.
Così si chiudeva la lettera di Kate, dopo un preciso elenco sulle cose che lui non era stato in grado di portare a termine. Spaziava dalla tegola rotta sul tetto fino ad arrivare alla carriera artistica e agli spettacoli incompiuti.
Sembrava una delle sue liste della spesa in cui non si limitava a scrivere cosa comprare ma anche il colore della confezione, la grandezza, il peso e finanche la posizione esatta nel supermercato.
Martin si alzò, accese l’albero di Natale, criticato anche quello al punto dieci della lettera, e si mise in ascolto del silenzio.
Poi cominciò ad allargare i suoi libri negli scaffali lasciati vuoti, passò in cucina e si fece un caffè usando la macchina espresso, come piaceva a lui.
Fu la volta della camera da letto dove riempì i vuoti lasciati, allargando camicie e pantaloni, stipati in quell’unica anta concessagli.
Tornò nello studio, accese il giradischi, si sedette alla scrivania con il caffè fumante e aprì il notebook.
Passarono ore, giorni, settimane.
Dopo tre mesi, Kate stava passeggiando in centro con un rumore assordante di tacchi e il suo sguardo cadde distrattamente sulla bacheca del Teatro principale della città. La locandina era molto bella. Lo spettacolo si chiamava “Finalmente mia!”.
Lesse il nome del regista e trasalì barcollando: “MARTIN STEVENSON: DECIMA REPLICA”.
IV lezione lab di scrittura Maledetti Vivaci