Leila guardò il telefono, sono le 18.30. Era in anticipo per il suo appuntamento e si incamminò verso il mare.
Il vestito a righe e le mani in tasca, che silenzio pensò. Qualcuno correva sul lungomare, qualcun’altro era lì seduto solo a guardarlo. Qualche coppia, qualche faccia truce.
Una bimba giocava con due sfere, per metà trasparenti e metà colorate. I suoi genitori stavano sistemando un piccolo punto di ristoro, lí sul lungomare. “Bibite fresche” si legge su un cartello improvvisato e scritto maldestramente. La bambina aveva tanti boccoli biondi, sembrava un angelo. Leila pensò che forse era più fortunata di altre, o forse no.
Più avanti c’era ancora una panchina. Una signora sorrideva e chiacchierava con l’uomo innanzi a lei. Un copricapo all’uncinetto. Forse i segni di una chemioterapia. Fu impossibile non sorridersi.
Il silenzio che accompagnava Leila fu interrotto dalle campane della chiesa e dal richiamo della moschea.
Un ricordo le tornò alla mente, una foto scattata da un’amica in una moschea di Istanbul. Le donne musulmane pregavano con le mani giunte. Anche le donne cristiane lo fanno, pensò. Tutte bellissime in quel gesto raccolto e semplice che in India diventa Namasté che significa “Mi inchino al divino che è in te”.
È tardi. Leila guardò di nuovo il telefono, non portava più l’orologio da tempo ormai. Era ora di recarsi al suo appuntamento del lunedì. La terapia l’attendeva. Era un processo lungo e difficile che aveva intrapreso un anno prima, sotto l’occhio confortante del faro della sua città. Una nuova gestalt si sarebbe aperta questa sera.