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Andava per il mondo con un pacco di fiammiferi in tasca. Tutte le volte che poteva ne estraeva uno e accendeva un lumino. Il motivo era irrilevante, Sam doveva fare luce. Era questa la sua missione. Così girava per le feste patronali, le sagre, le chiese. Dopo il suo passaggio qualcosa cambiava. Non era solo per la luce ma per l’energia che lasciava nei luoghi, per la gentilezza, il sorriso con cui rispondeva a chi lo accoglieva.


Gli offrivano da mangiare, da bere, da dormire, lo coinvolgevano nelle feste, nei balli, gli chiedevano opinioni sulla politica e consigli amorosi.
Quando aveva finito la sua missione in un luogo Sam se ne andava quasi sempre di notte, senza salutare nessuno. Lasciava sul tavolo più vicino un piccolo salvadanaio con i risparmi che accumulava tra un viaggio e l’altro suonando il flauto.


Quando il giorno dopo gli ospiti trovavano il salvadanaio, lo rompevano incuriositi dal contenuto e assieme a pochi denari trovavano un biglietto che quasi sempre recitava così: “La mia missione era di lasciarti la luce, ti sia di aiuto per trovare la tua missione”.

Testo e foto (Mesagne) di Manuela Bellomo

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Marcus Smith era seduto sul suo materasso preferito, in realtà l’unico che aveva. Quello su cui dormiva e passava tutta la sua giornata.

La camicia rossa era sgualcita ma gli dava un aspetto allegro, alticcio. O forse era il vino? Non saprei dirlo. 

In mano però avevo una bottiglia d’acqua e brindava a tutti quelli che incrociavano il suo sguardo,  distratti e giudicanti. Lui però sorrideva, continuava a sorridere, non smetteva mai.

Marco aveva scelto. Comunque fosse stata la sua vita, su un materasso madido di sporcizia e sudore o fra lenzuola di seta, lui avrebbe sorriso a quella vita che a volte riusciamo a domare e a volte, molto più spesso in realtà, va come desidera andare.

Lab di Scrittura sul Mare Colori Vicaci

Foto di Luigi Ghirri nell’ambito del progetto Con Franco Guerzoni “Nessun luogo. Da nessuna parte”.

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Le parole sono il dono più grande che abbiamo per toccare il nostro dolore. Attraverso di esse egli diventa tangibile, esce dall’anima che si sente soffocare.

È un esorcismo di lenta guarigione.
Usiamole le parole, con noi, con gli altri.

Il silenzio é fondamentale per raccogliere le parole giuste, quelle opportune, quelle belle, poi bisogna trovare il coraggio di dirle a se stessi, prima di tutto, e poi a chi amiamo.

A lungo andare il silenzio scava, le parole hanno il grande dono di ricostruire, di generare ancora.

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Da quando ti ho scoperto non faccio altro che immaginare di sentire la tua voce che risponde a ogni mio dubbio, ad ogni mio perché.

A volte ti sento che mi dici che non sei lì per cattiveria, che ci sei capitato, che mi avevi anche avvisato ma io non ti ho voluto dare ascolto.

Ora ogni volta che poggio la mano sulla pancia ho paura ma so che tu ne hai più di me.

In quel giorno non troppo lontano io vivrò e tu non ci sarai più.

Certo sarà una vita diversa e per questo non potrò scordarti mai: non ho mai avuto paura e tu mi stai insegnando cos’è.

Lab sul mare “Colori Vivaci”

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Quella mattina presi una decisione!

Decisi che da quel giorno in poi non avrei mai più usato il grembiulino bianco a scuola.

Così lo comunicai a mia madre e andammo insieme a comprare un grembiulino a quadretti bianchi e blu come il mare.

Mamma mi mise in allerta: “Guarda che le suore si arrabbieranno. Sei pronta ad andare controcorrente? Se non vuoi essere come gli altri ci sono sempre conseguenze e bisogna essere disposti ad accettarle.”

Io non demordevo, così l’indomani entrai in classe col grembiulino diverso dagli altri.

La maestra guardò me e mia madre con aria interrogativa. Mamma le strizzò l’occhio.

Dopo anni venni a sapere che la maestra era stata preavvisata del mio moto di ribellione.

Così davanti alla classe disse: “Oggi Manuela ci insegna cosa vuol dire libertà di pensiero, la lezione la tiene lei.”

(Da un lab di scrittura con Colori Vivaci)

NDR: ho usato per questo post una foto di Pippi che adoravo da bambina. E’ un simbolo della ribelle che non sono mai stata e che ancora oggi fatico ad essere ma mi impegno!

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Entrò nella stanza quasi buia e con la solita svogliatezza mi buttò la borsa addosso. Quanto pesava. Mi sono sempre chiesto cosa ci tenesse dentro.

Cominciai a immaginarne il contenuto.

Sicuramente un libro, uno dei tanti che raccoglieva nella sua libreria e che tirava giù a seconda dell’umore.

E poi il rossetto, non usciva mai senza. Aveva sempre una sfumatura diversa a seconda del tipo di uomo che entrava nella sua vita.

Spesso la vedevo piangere e quindi nella borsa c’erano i fazzolettini. Quando il pacchetto era pieno la borsa era più pesante ma ne ero contento, anche se mi faceva male quando me la lanciava addosso.

Che altro poteva esserci dentro?

Ah sì quel maledetto telefono che squillava in ogni istante.

Lui sì che era pesante, a volte glielo nascondevo nelle pieghe dei cuscini. Così per un po’ era tranquilla.

Volevo proteggerla e coccolarla. Mi piaceva vederla addormentarsi serena sopra di me.

Dal laboratorio di scrittura Colori Vivaci

Ramon Casas – Giovane decadente (o Dopo il ballo)
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Questa storia inizia sul terrazzino di un palazzotto di provincia.

Sono ai piedi di una scala ripidissima, come solo in un borgo antico possono essere. Apro il portone e me la ritrovo davanti.

Sospiro, sbuffo, non ho alcuna voglia di fare tutta questa fatica. Per cosa poi? Per chi? Per soffrire di nuovo?

É tutto qui sulla mia pancia, si è depositato di nascosto, bugia dopo bugia. Non ne avevo giá avuto abbastanza?

Evidentemente no, altrimenti non sarei qui, divisa tra l’istinto di scappare e il desiderio di provare di nuovo la sensazione di amare ed essere amata.

Mi sentivo una funambola, il vuoto sotto e poi la scelta: andare avanti o tornare indietro ma nello strapiombo no, non ci sarei più finita, questo lo sapevo, qualcosa l’avevo pure imparata.

Così la scala divenne la scelta, gradino dopo gradino, una pausa sul piano intermedio per riprendere fiato, e poi ancora gradino dopo gradino fino in cima.

Anche quando la porta si aprì davanti ai miei occhi e una mano avvolse la mia,  c’erano ancora gradini da fare, fin lassù, fino a quel terrazzino in cui musica e campane gareggiavano per prendersi l’attenzione e darmi il benvenuto.

È passato del tempo, non ci sono più scale e nemmeno il terrazzino.
Li ho salutati entrambi con gratitudine per tutte le emozioni donatemi, si cammina in piano adesso ma la strada rimane ancora lunga.

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Era una delle mie solite serate in radio, la trasmissione era quasi terminata. L’ultima canzone, l’ultima battuta e poi diedi la buonanotte.

Il microfono era spento e le campane della chiesa vicina suonarono i loro rintocchi.

Aprii la finestra e con un balzo fui sul muretto del terrazzino accanto.

Dal basso giungevano sguardi preoccupati. Allargai le braccia e imitai le campane con la voce…la voce della radio.

Din don, din don, din don…

Ero io il batacchio di quella campana, battevo il tempo, decidevo il ritmo, calibravo suono e frequenza.

Lo feci più e più volte, ognuna per una persona a cui volevo bene, a ciascuna regalai un battito di felicità.

La trasmissione più bella che abbia mai fatto.

Dal laboratorio di scrittura Colori Vivaci

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Tempo di raffreddori e di naso chiuso. Il mio è chiusissimo e stando a casa a riposo dedico tempo alla scrittura e alla riflessione. Prezioso dono di cui sono sempre grata.

Mi capita spesso di soffermarmi sull’umanità. Rimane sempre per me affascinante il mistero di questa bellezza, che tante volte si fa brutta, ma molte altre, la maggior parte direi, riesce a essere bellissima, degna di attenzione e di stupore.

Una persona cara qualche giorno fa mi ha scritto “io sono tutto storto” e in quel preciso istante è saltata alla mia mente l’immagine dell’ulivo.

Attorcigliato, nodoso, storto ma quanta storia ha da raccontare? Quanta bellezza e meraviglia giungono ai nostri occhi quando nelle nostre suggestive campagne pugliesi ci imbattiamo in un albero di ulivo.

Dunque che significa che siamo storti? Che siamo fatti male? No, per niente.

Per come la vedo io essere storti e non aver paura di dimostrarlo è un atto di vita, la nostra vita, quella che abbiamo vissuto, che ci ha reso le persone che siamo oggi, nel bene e nel male.

La vita ci mette alla prova, fin troppo a volte, ma siamo sulla terra per sperimentare e sperimentarci.

Durante questo tempo possiamo diventare storti, possiamo graffiarci e questo ci riempie di paura ma, ecco un’altra immagine regalatami oggi da un’altra persona cara, la paura è una tigre di carta.

Fa spavento ma è solo carta.

Pensiamo agli origami, che belli che sono, ecco la paura può essere trasformata in questo, un susseguirsi di figure di carta, leggere, quasi impalpabili, che non nuocciono a nessuno. Sono lì, ci possono far paura, ci mettono in guardia ma fanno davvero male come sembra?

Siamo tutti storti, tutti spaventati…è un bene, abbiamo vissuto, possiamo raccontarlo, possiamo imparare dal passato e lasciarlo volare via come un aereoplanino di carta.

C’è troppo da vivere, troppo da conoscere, troppo da fare per pensare alle storture. L’ulivo non ci pensa, lui continua a crescere e più cresce più ne rimaniamo incantati.

Alla fine certe risposte sono nel luogo in cui siamo nati e che ci portiamo nel cuore ovunque andiamo.

Alla prossima!

Foto mia!

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Ho iniziato a leggere questo libro un paio di mesi fa, è stata una lettura lenta, non perchè il libro lo fosse, tutt’altro. Voce di Sale di Luisa Sordillo si fa divorare, è avvolgente, cattura, non può non piacere, come è scritto anche nella postfazione del Neuropsichiatra infantile Maurizio Brighetti.

Io ci ho messo tempo per leggerlo perchè ho pianto tanto e non capita così facilmente. Ho capito dunque che dovevo rallentare e permettere a me stessa di nutrirmi a poco a poco delle emozioni che giungevano alla mia anima sensibile.

Lascerò ad un articolo su Puglia Eccellente, il giornale di cui sono direttore, il piacere di parlare di questo libro, di Luisa e di suo figlio Simone, della sua sfida all’autismo e dei progetti che ne stanno scaturendo.

Voglio solo riflettere su alcuni aspetti che mi hanno colpito e che poi approfondirò delicatamente con l’autrice.

“Non è l’autismo che fa sentire soli”.

La parola solitudine è ripetuta tante volte nel libro. Lo spettro autistico isola chi ne è affetto, isola la famiglia e le istituzioni sono ancora lacunose in tal senso. Certamente ci sono più associazioni di un tempo ma quelle che funzionano, e ne conosco alcune, sono quelle con maggiori risorse a monte, le altre si barcamenano come possono.

Gli amici e i parenti ci provano a includere e ad essere inclusi (parola blasonata e a mio avviso vuota!) ma l’autismo spaventa, più per la nomea che si porta, che non perchè concretamente sia più spaventoso di altre forme di disabilità. Ciò che non si conosce spaventa, è mostruoso, per questo dobbiamo porci in un atteggiamento di apertura e conoscenza.

Mi viene in mente il film i Goonies…chi lo conosce capirà di cosa parlo…

Un mio caro amico psicologo, educatore in varie occasioni di bambini/ragazzi autistici, mi ha fatto riflettere su quanto ci si possa affezionare ad un autistico esattamente quanto ad un bambino affetto da sindrome di Down. Si riceve molto da entrambi.

Questa è la riflessione, il cambiamento del punto di vista. L’autistico è speciale e può donare quello che ha ma l’ostinazione e la presunzione che possa essere come gli altri, e quindi la conseguente frustrazione che così non è, porta inevitabilmente all’isolamento suo e della famiglia.

Le mie sono riflessioni spicciole, sono stata sfiorata dall’autismo negli ultimi sei mesi e ho sentito il desiderio di capire e di voler cambiare il mio punto di vista. Voce di Sale è arrivato nelle miei mani esattamente quando ne ho avuto bisogno.

Sono solo pensieri ad alta voce, i miei pensieri che spero non offendano nessuno.

Sempre riflettendo, penso all’uso delle parole e dei concetti.

Gli autistici non hanno in generale capacità immaginativa, non possono sognare, loro sono concreti e sistematici, si nutrono di realtà e quando ci si discosta da essa vanno in tilt o fanno osservazioni che Luisa nel libro definisce buffe.

Mi soffermo sulla concretezza delle parole. In un mondo, quello attuale, in cui le parole servono a imbonire, incantare, finanche a prendere in giro e ad accusare, l’autistico ne fa un uso concreto, strettamente legato alla realtà che lo circonda. A me così sbagliato non sembra. Certamente non potendo immaginare perde una quota parte preziosa di vita. L’autismo è molto duro anche in questo.

Tuttavia se un autistico riesce a dire “Ti voglio bene” probabilmente lo penserà sul serio.

Chiudo questo post con una esperienza capitatami qualche giorno fa.

Camminando nel mio quartiere mi sono imbattuta in una mamma con un gruppetto di bambini. Nel momento in cui ci siamo incrociati uno di loro mi ha fermato con la mano, attraendo la mia attenzione e mi ha guardato dritto negli occhi, nello stupore apprensivo dei presenti.

E’ stato uno sguardo intenso e lungo, interrotto dalla mamma che lo ha ripreso e si è giustificata dicendomi che sicuramente mi ha confuso con qualcun altro. Io le ho ribattuto sorridente che mi capita spesso che alunni mi salutino e che ci deve essere una prof molto simile a me in circolazione.

Intanto questo angioletto prende una direzione opposta a quella della mamma che lo rimprovera. Io sono già oltre e sento alle mie spalle suoni e concitazione. Capisco che era un bambino autistico.

Bene, io non dovevo trovarmi in quel punto a quell’ora. Mi ci sono trovata per una congiunzione di ritardi e impegni sopraggiunti.

Credo che lui mi aspettasse, voleva incontrarmi e farmi sapere che c’era, che esisteva (ndr: sono in pieno possesso delle mie facoltà mentali, tranquilli!)

L’episodio mi ha scosso molto e per questo ho deciso di dilungarmi sul blog per riflettere su Voce di Sale e su quel poco che sto imparando sull’autismo.

Vi rimando a Puglia Eccellente (www.pugliaeccellente.info) per continuare il discorso.