Iniziai quell’esercizio: seduta a terra con le gambe incrociate, guardai la luce della candela che avevo acceso in fretta, cambiando idea mille e mille volte ancora.
Così, mentre la fiamma vibrava, presi a fissarla senza muovere un solo atomo dell’istante di vita in corso.
Quando le lacrime cominciarono a scorrere dagli occhi stanchi alle guance, giù giù fino ai luoghi del piacere supremo, fu allora che smisi di guardare la luce di quel cero perchè la fiamma cominció a guardare me.
Un occhio sbatteva le palpebre e fissava proprio me, inerme, spaventata. Ogni organo del mio corpo sembrava essersi dissolto, risucchiato dalla luce di quello sguardo.
Quando ho iniziato volevo prendere, ora ero io a essere presa.
Ero io la preda di quel guardare, nuda di tutto ciò che mi dava vita, prima di quel momento. Nella luce si persero le certezze, la volontà, i dubbi e le paure.
Fu un attimo. La passione mi travolse e poi più niente. Pace. Silenzio.
Aprì gli occhi e ripresi così il mio guardare.
La candela era ancora lì, la luce si faceva poco a poco più fioca.
Mi sdraiai per terra cercando di dare un nome a ciò che era successo.
Non ci riuscì mai.
Forse è stato meglio così.
È quando ci ostiniamo a dare un nome alle cose che la cera si consuma e la luce si spegne.
Maledetti Vivaci – corso di scrittura – prima lezione